Mediterranea
A Journal of Cultural Anthropology and Ethnomusicology
( 2 /2018)

 

 

 

Monumenta 
Dotium
Semiticarum

 

 
The Book 
of Jeremiah

Jeremiah 7:23-28. 
 

 
Studi preliminari

E.W.  THOMPSON,   The Book of Jeremiah,  (NICOT), Grand Rapids 1980; J.BRIGHT, Jeremiah  (AB. 21), New York 1965;    E.W.NICHOLSON,   Jeremiah 1-25 (CBC) Cambridge    1973; VOLZ P.,False prophets, in Enciclopaedia Biblica III, London 1902,  3874; KONIG   E.,  On  the  Meaning and  Scope  of  Jeremiah   7.22-23,  in  “  The Expositor”  6  (1902)   pp.  135-154; SCHEFFLER E., The holistic historical background against which Jeremiah 7,1-15, in “OTEssays”  (1994)  381-395,  STACHEL  G.,  “Sta  in porta  domus  Domini  et loquere verbum”, die Predigt 19 Eckarts und der Spruch Jeremia 7,2, in “GeistL” (1990), 405-426, TOV E., Some aspects of the textual and Literary History of tha Book of Jeremias, in Aa.Vv, Le livres de Jérémie, BETL, LIV, Leuven 1981, S.E.BALENTINE,The prophet as Intercessor, A Reassement, in “JBL” 103 (1984), pp. 161-173, HOLLADY W.L.,The background of Jeremiah’s Self-Understanding,  in “JBL” 83 (1964), pp. 153-164.



 
Articolo
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“NON PARLAI NE’ DIEDI COMANDI SULL’OLOCAUSTO E SUL SACRIFICIO AI  VOSTRI PADRI” 
  
Analisi del testo di Ger 7,23-28. Analisi antropologico-culturale della Mith and Ritual School 

di Davide Polovineo 

November 22 2016





1 Lineamenti introduttivi
 
I primi dieci capitoli del libro di Geremia si presentano con una costruzione estremamente articolata. La rassegna delle correnti stilistiche ci presentano  una  situazione  civile e culturale appena abbozzata. Nicholson, nella sua ipotesi di studio su Geremia 1-10, presenta le affinità strutturali con i discorsi deuteronomistici (1): 
           
a) Introduzione 
b) annuncio del castigo  

Il filone narrativo (Cfr. 2 Re 24,18-25; 1 Re 21,17-19; 2 Re 1,34; 1  Re  11,29-39;  2Re  13,14-19) si sviluppa su un’area che coincide in parte con quella oracolare  e della  cronaca; rappresenta cioè il passaggio più diretto dall’arte del  vivere all’arte del  narrare.  

Una serie  di oracoli sviluppa in continuazione con  rigore formale e leggere varianti uno schema di legittimazione dell’autorità profetica ( 1,14-19)che condanna la situazione di prostituzione del popolo (2,2-3) con poemi epici (4,67; 4,13.15-17; 5,15-17)che criticano la società (5,26-31) e annunciano l’arrivo della carestia (5,20-25) e dei nemici (6,1).

Le energie combattive che  reggevano e indirizzavano questo vivere erano, soprattutto, politiche; ed  ecco  il significato stilistico  della  polemica campanilistica, dalle   forme   immediate  dell’improperium alle  più riflesse e vistose conseguenze sul  gusto  già propenso alla parola scolpita, al motto tagliente. Il valore di simmetria e di forzata regolarità dei primi sei capitoli cede il posto nel capitolo settimo al ciclo cultuale. Nella linea dei primi  capitoli c’è  un  riferimento esplicito  a  Gerusalemme,  ma  proprio  da  questo momento  entrano nella  lista degli imputati  i  sacerdoti;  le guide  spirituali  del  popolo sono  chiamate  in  causa  poiché  non  hanno  avuto sapienza  e  hanno disprezzato  la  Legge (8,8-9;9,12-15.22-23).  

La corruzione morale è descritta da due qinah (8,18.9,21) che annunciano l’imminente arrivo del  nemico  (8,14.16) e enfatizzano  i sentimenti di panico  del  popolo  (10,17-22). In  realtà, il processo di assestamento, nella prosa, dei vari strati ideologici e delle varie tradizioni stilistiche, si svolgeva in presenza di un anteriore e più  energico  movimento di unificazione  contenutistica  e formale: la geremiana lingua  poetica.  Alla  prosa competeva  di  esplicitare  e diffondere i contenuti che la lirica, schiva per definizione, aveva in sé impliciti, e dibatteva in una cerchia di iniziati. Quel che mette conto di accertare nella stesura di Ger. 1-10 è la coerenza del suo tono, sia stilistico e sia umano. Il racconto, pur nel suo nudo linguaggio, ha un’architettura sicura e costante. La riprova di quanto s’è detto dinanzi, è data appunto dal riconoscimento d’una tonalità  comune, che  circola nella prosa e nella poesia. L’autore è uno scrittore, non un frettoloso e sprovveduto epitomatore. Nella scelta dei temi, nel loro gusto interno, nella  padronanza con cui egli li ripensa e li ritraduce, si rivela vigile e produttiva la sua presenza e si riconosce la sua cifra. Geremia 1-10, in definitiva, è un’opera già matura e senescente, e niente affatto acerba e aurorale. La  verità è che non appena ci si abitua a questo tipo di scrittura, o meglio, non appena se ne coglie il gusto, le altre risultano prolisse o prodigali (2) . 

Uno dei  principali  ostacoli  da  superare  per  l’interpretazione geremiana del  capitolo settimo  è l’offuscamento della comprensione conseguente ai mutamenti linguistici e ai cambiamenti della  concezione   della  vita (3). Ed  ecco, già evidente, il problema antropologico culturale. L'ipotesi storico-genetica, secondo cui "il mito  dipende  dal   rito"  o, più  ampiamente, i miti sono intimamente associati ai rituali, ove si tende chiaramente a privilegiare il rito nei confronti del mito, ha come esponente Robertson  Smith (4)  che  con  uno  stile   minuziosamente descrittivo e servendosi delle fonti monumentarie  cuneiformi  dei  popoli  degli assiri e babilonesi, delle fonti bibliche e delle fonti letterarie greche, affermò che presso i popoli semiti il legame di sangue era l’elemento costitutivo della creazione del clan, del sistema politico e del sistema cultuale: la stessa concezione di legame di sangue univa la divinità con il popolo per cui il sacrificio era necessariamente un atto di comunione con gli  dei (5). L’autore  prova  ciò ponendo  in  sinossi  i  costumi  degli arabi con il costume sacrificale semitico: sia l’uccisione del cammello presso gli arabi di cui parla Nilus,sia l’uccisione di un membro del clan, erano atti del clan, ossia richiedevano il consenso di tutto il clan.

Questi atti “scrupolosi”,secondo la definizione  dell’autore, sono evidenti anche nei popoli semiti per i quali ogni uccisione avveniva solo per i riti sacrificali che erano una prassi che creava un “legame” di  parentela sacrale con la  vittima (6). Gli ebrei tuttavia si differenziavano dagli altri popoli semiti poiché la loro relazione con JHWH era di tipo etico (7). Zebah šelamim era la materia del sacrificio pubblico  del clan e il valore profondo del sacrificio non consisteva nella morte della vittima ma nella comunione con la sua vita attraverso il pasto. Questa  prassi delinea per Robertson Smith  la  comprensione del  sacrificio come atto di  comunione  tra   la  comunità  e   il  dio.  All’interno  di  questa  tesi Robertson  Smith  distingue (in  un  primo momento   marginalmente   e   in   seguito   sistematicamente) tra  il mangiare davanti a Dio e insieme al dio che implica una comunione non  mistica  o  ‘convivio’,  e  un  mangiare  dio  stesso  che  implica  una comunione  a  livello  mistico (communio).  

Frazer (8) aveva  avuto un’intuizione  simile  nel  Ramo  d’oro:  infatti  in  Svezia  la  contadina impastava  con   il  grano   dell’ultimo  covone  un pane  a  forma  di bambina.  Tutti  i  membri  della  famiglia  si  cibavano  poi di  questo pane  considerato  lo  spirito,  il “dio  del  grano”.

Presso gli Ainu  del Giappone    ancora   per  testimonianza  di  Frazer  era  “scelto  del miglio  che  poi  era  trasformato  in pane” (9).  Quel  pane era pregato, adorato e alla fine era consumato come vera divinità. In base al repertorio di  Frazer,Robertson Smith individua,pertanto, l’evoluzione del rituale del sacrificio di comunione in tre momenti: 

A)  L’Istituzione  dell’olocausto,   il  sacrificio  per   i  peccati  in   cui  il  sangue non era bevuto ma versato sull’altare, è l’indicatore di  una   frattura   parenterale   della   dimensione   conviviale   tra animali/uomini/dei (10) .
 
B)  Il  sacrificio  come dono fatto al dio. Questo implica il concetto di proprietà e quindi lo stato post-nomadico e la fase di sedentarizzazione (11).
 
C)  La  fase  di   spiritualizzazione  del  culto  israelita.   Questa  pone  la dimensione   simbolica  del   sacrificio   per  cui   il   vero  valore dell’offerta non  consisteva   nella  prassi  ma  nell’omaggio  del fedele (12).
 
In questa chiave di lettura l’opera geremiana con  le  sue  particolarità  costruttive,  appare un punto di riferimento sicuro per lo studio sul sacrificio (13). 

Dal punto di vista antropologico culturale di Robertson Smith la distanza storica diventa non pertinente, dato che la permanenza dell’opera nella sua totalità è  incontestabile, e  il tempo  vi può incidere solo danneggiandone fisicamente i testimoni. 
 
In tal senso proprio questa innovazione della Mith and Ritual School delinea una fase distruttiva che consiste nel riconoscimento che  ogni discorso sull’opera è un allontanamento dall’opera, segni che proliferano l’uno sull’altro, con inarrestabile entropia (14). Si tratta di un’ermeneutica geremiana non referenziale e anti-oggetiva, un’ermeneutica dell’assenza, un’ermeneutica che scardina il rapporto tra significante e significato, su cui si basa ogni nostra possibilità di comprensione. 

Si è verificato un rovesciamento nell’ordine degli oggetti di ricerca. Mentre l’ermeneutica della Mith and Ritual School poneva al centro dell’attenzione  l‘opera, l’ermeneutica odierna assegna la funzione di arbitro al lettore o destinatario. Alla base del capovolgimento si pone forse una constatazione empirica ma importante, che essendo anche l’esegeta un lettore, egli conosce molto più sulla lettura che non sulla scrittura, sulla ricezione che non sull’emissione, sui significati che riesce a percepire che non su quelli impliciti nell’opera.  
 

2 Analitica linguistico-antropologica

 

                                                                             
 

Aggiungete olocausti a sacrifici e mangiate pure la carne sacrificale (cfr. nota 15). In verità io non parlai ne’ diedi comandi sull’olocausto e sul sacrificio ai vostri padri [quando li feci uscire dall’Egitto] (cfr. nota 16). Questo fu la Parola che diedi loro, “Ascoltate la mia voce, Io sarò il vostro Dio  e  voi  sarete il mio popolo.  Camminate sempre sulla strada che vi prescriverò perché  siate  felici”. Ma   non  ascoltarono  né  diedero  retta [seguivano   i  loro  piani] (cfr. nota 17),  la malvagità del loro cuore ostinato [volgendomi le spalle e non il volto] (cfr. nota 18). Da quando i vostri padri uscirono dall’egitto fino ad oggi, Io inviai a voi i miei servitori i profeti con premura e sempre. Ma non mi ascoltarono, e non li ascoltarono né prestarono orecchio, resero dura la loro   nuca   divennero   peggiori   dei   loro   Padri.   [Puoi   ripetergli   queste   Parole,   non ascolteranno. Puoi  gridargli,  non  risponderanno (cfr. nota ]19).  Puoi  dirgli,“Ecco  la  gente  che  non ubbidì al  JHWH, suo [Dio] (cfr. nota 20)”. Non vogliono correggersi la sincerità è [sparita] dalla loro bocca. 

Dal  grande  discorso  geremiano  alle  porte  del  tempio si inquadra la grande problematica di fondo che collega la polemica al sacrificio  da  parte del profeta a due  grandi categorie veterotestamentarie che vengono rilette da Geremia: il profeta pone un’ambiguità metodologica, nella comprensione   dell’associazione sacrificio*Alleanza che trova una possibile ricomprensione da parte di Geremia, soltanto sul piano etico. 

Una trattazione  della  categoria  berit e delle sue connessioni con  il  tema  cultuale  di  rilevanza  teologica  nell’ambito dell’Antico Testamento   potrebbe essere   facilitata, ma nello stesso tempo condizionata ed impedita, da precomprensioni teologiche che, pur fondate sull’analisi  dei testi, procedono da  concezioni  in  qualche modo estrinseche dall’esegesi stessa. Le asserzioni che si ripetono in sede liturgica sul rapporto tra berit e sacrificio sono dovute anche, talvolta, a una divulgazione dei risultati conseguiti dagli studi biblici che non sono  riusciti a risolvere  adeguatamente il problema in  questione,  o  per  lo  meno manifestano un  disagio   particolare nei suoi riguardi.

Per questo come pre-comprensione fondamentale nella lettura dell'associazione alleanza-rito si seguirà la prospettiva antropologica che tra l'altro ha avuto una grande ripercussione in ambito esegetico negli anni 40 e 60 dello  scorso  secolo. Tale  operazione non deve sembrare soltanto la ripresa di una antica indagine, ma la possibilità  di   rileggere il  binomio Evento-Rito in  una  prospettiva alternativa rispetto agli schemi logici  in  cui il problema viene analizzato ovvero la comprensione del mondo rituale profetico come stadio  di spiritualizzazione avviata nei sec. VIII e VII  nella lettura cultuale del profetismo.  

Il profeta Geremia pone una frattura tra evento-alleanza e rito dei sacrifici e olocausti ma non riesce a ricomporre, né su un piano superiore, né sintetizzando la frattura, la dicotomia tra evento e rito. Geremia nega la validità degli olocausti e del sacrificio in base all'evento dell'alleanza, quindi il luogo della mediazione rituale non è il  mondo  sacrificale, ma  la  dimensione  etica che  si  realizza attraverso una formula  fissa nel profeta:"Se non opprimerete  il forestiero, l'orfano e  la  vedova e se  non  seguirai  altri  dei, allora abiterete in questo luogo nella terra che diedi ai vostri padri" (Ger 7,6-7). Si crea quindi un legame profondo tra Alleanza ed etica che diviene il luogo di mediazione dell'evento scardinando il  mondo rituale.

In buona parte degli studi liturgici non si è riletto, oppure è sfuggito, questo passaggio metodologico, ponendo la commensurabilità tra evento     dell’alleanza  e sacrificio nell’introduzione della terminologia “Fase di spiritualizzazione”. 

Ma almeno in Geremia questa  rilettura non è possibile. Anzi, facendo un  piccolo passo avanti, si deve affermare che lo smantellamento  rituale geremiano,  pur  se  da  rileggersi all'interno della deuteronomistiche-Redaktion, contraddice tutta una rilettura del mondo sacrificale in cui berit è rito. Ma facciamo piccoli passi in modo da individuare le linee di lavoro. 

In un primo momento è necessario mostrare come il significante berit supponga e quindi racchiuda in sè la linguistica cultuale poiché è azione cultuale. Non si tratta quindi di vedere  semplicemente  se  questa  associazione  linguistica  occupi  un posto   centrale   nell’ambito   di   una teologia   biblica   dell’Antico Testamento, ma di definire piuttosto il linguaggio preciso, diremmo quasi tecnico.

In seguito si passerà ad analizzare la separazione berit-Sacrificio, probabilmente dovuto alla formulazione o riformulazione della scuola deuteronomico-deuteronomista, per cui il sacrificio indica berit che diviene evento dell’alleanza.

Come terzo passaggio, analizzeremo   l’evoluzione   di  questa   frattura nella   profezia   di Geremia  7,21-22  che evidenzia come  i  sacrifici  e  gli olocausti non sono  commensurabili  alla  categoria evento dell’alleanza, ma anzi riducono in condizione paradossale l’evento dell’alleanza tra JHWH e il suo popolo: è necessaria pertanto significativamente e teologicamente la nascita di una nuova mediazione  dell'evento dell’alleanza .

Il rito non è più mediazione dell'evento, al suo posto subentra la categoria etica della giustizia.

E’ quindi opportuno soffermarsi sui dati che emergono dalla 
rassegna delle trattazioni dedicate al  tema Evento dell’alleanza-sacrificio, per constatare  anzitutto  come  essi  siano  molteplici  nelle loro proposte più significative, e spieghino anche perché la recezione della problematica   in campo teologico-liturgico sia  caratterizzata dagli stessi termini o dalle stesse formulazioni . 



3 L'evento dell'alleanza come prassi
 
Richiamando Prato (cfr. il suo contributo in La Creazione. Oltre l'antropocentrismo?, ATI, Padova 1993) possiamo passare  in  rassegna   anzitutto i testi  principali, distribuendoli  secondo l’itinerario  cronologico  ideale in cui sono posti   nell’arco della  storia  d’Israele "ripensata"  nei   testi dell’Antico Testamento e rilevando gli elementi che  interessano  il linguaggio concreto della loro formulazione.  

Nell’ evento dell’alleanza «noachica» (Gen 9,1-17), il cui segno è  l`arco  sulle  nubi, berit  si  estende  a tutta  la creazione; berit  con Abramo, il cui segno sarà la circoncisione, interessa solo i discendenti del patriarca (Gen 17); sotto Mosè, essa si limiterà al solo Israele, con l`obbedienza  alla legge come contropartita  (Es   19,5,  Es  24,78) e specialmente con l`osservanza del sabato (Es 31,16-17).

Il testo di Gen 9,1-17 si suddivide in una benedizione (vv.17) e in una berit vera e propria, che si esprime con il verbo qum al causativo e l’oggetto berit (=  far   sorgere  una   berit,  cfr  vv.   9.11  anche   12-13.15.17) e viene accompagnato da un segno: l’arco sulle nubi. Successivamente berit si ripresenta in Gen 15, racconto jahvista dove sono forse incorporate le prime tracce della tradizione elohista, la  fede   di  Abramo è messa alla prova, le  promesse   tardano  a realizzarsi. Esse sono allora rinnovate e sigillate da karat berit (= letteralmente tagliare una berit).

La promessa della terra è messa al primo posto. Nel vecchio rito di evento di berit (conosciuto anche da Ger 34,18), i contraenti passavano tra le carni sanguinanti "invocavando" la sorte riservata a queste vittime, se trasgredivano il loro impegno. Sotto il simbolo del fuoco (cf. il roveto ardente.  Es  3,2;  la  colonna  di  fuoco,  Es  13,21; il  Sinai  fumante,  Es 
19,18), è JHWH che passa; e passa solo, poiché berit è un rituale (cf. Gen   9,9). E`un   rito   solenne,   sigillato   da   un giuramento imprecatorio    (il    passaggio    tra    gli    animali    divisi).    

Il gesto concomitante del passaggio attraverso le parti degli animali divisi  va 
spiegato  con   la  prassi orientale dell’uccisione degli  animali, ma bisogna tener presente che il testo forse non è molto antico e quindi non  applica  il  gesto  nel  senso  che  esso  poteva  avere  nella  prassi orientale più  antica  dove,  almeno  in   una  certa  fase  e  in  qualche ambiente,   era  rito   di   minaccia.  

Diverso è  il  modo con  cui  la medesima berit con Abramo si pone in Gen 17 , nuovo racconto berit di tradizione  sacerdotale. Berit  sigilla  le  stesse  promesse  della tradizione jahvista di Gen 15, ma questa volta impone all`uomo un rituale iscritto nella carne: la circoncisione. Si deve confrontare, della stessa fonte, l’evento dell’alleanza con Noè (Gen 9,9): la formulazione è  simile, qum  al   causativo e berit  (vv.19.21).

La   circoncisione  era primitivamente  un  rito di iniziazione al  matrimonio e alla  vita  del gruppo familiare (Gen 34,14 s, Es 4,24-26, Lv 19,23). Essa diviene qui un  «segno»,  che  richiamerà  a Dio  (come l`arco  sulle  nubi:cfr  Gen 9,16-17) l'evento berit, e all`uomo l'elemento rituale come berit nella carne. Però, le leggi fanno solo due allusioni a questa prescrizione (Es 12,44, Lv 12,3; cf. Gs 5,28). Assai più  complessa  è l'evento-berit   della  tappa  seguente,  quella sinaitica (Es  24,1-11), che va inquadrata  nell’insieme  della  teofania (Es 19,9-25), preceduta da una promessa (19,18), e delle leggi inserite in  posizione  intermedia (20,1-23.32 con  il  decalogo  posto  in  rilievo all’inizio: 20,1-17): vanno tenuti presenti i gesti che accompagnano la stipulazione in 24,38 (prescindendo dai vv. 12 e 9-11, che parlano invece di un banchetto), i quali tuttavia sono di difficile spiegazione: si scrivono le parole (v.4), si erige un altare con 12 pietre (vv.45) e soprattutto  si  versa  del  sangue  su  questo altare  (v.6)  e  sul  popolo (v.8).

Sembrerebbe evidente che uno stesso sangue, unendo assieme altare  e  popolo, simbolizzi  una  comunione di vita  tra  Dio  e  la controparte, ma  se  si  tiene  presente  che difficilmente  l’altare può rappresentare JHWH, la  duplice  aspersione  potrebbe avere  significati diversi:  in  via ipotetica e  in  alternativa,  si potrebbe   pensare che quella dell’altare richiami il rituale praticato nei sacrifici di comunione, qui nominati al v.5 (cfr. Lev 7,11-14 e 3,2.8.13), e il versamento sul popolo rispecchi e adatti l’uso del sangue previsto per la consacrazione sacerdotale  (cfr.  21,20-21; Lev  8,24.30) oppure sancisca  solo  il  fatto che  il popolo  è  divenuto  proprietà  di  JHWH,  come  è promesso  in 19,38.  

Non  basta  quindi  vedere   nel  sangue  un simbolo  di  vita, poiché   proprio   tale   simbolo   nella   prassi   orientale   assume un significato diverso,   quello  di   minaccia  verso chi  è  infedele  agli obblighi   imposti con  la  stipulazione. Forse anche qui  l’Antico Testamento non adotta rigidamente l’uso orientale e il corrispettivo significato, ma il problema di un confronto rimane tutto legittimo. L'evento berit successivo, presentato come un rinnovamento  di quello sinaitico,  è in Es 34, dove   ricompare   con   insistenza l’espressione  karat   berit (vv. 10.12.15.27)  e si   parla ancora  di   un obbligo  imposto  al   popolo  (ai  vv.  14-26  è   inserito  il  cosiddetto “decalogo jahwista”).

Dal punto di vista della critica letteraria, i cc 
32-34 combinano  le  tradizioni  jahvista  ed  elohista  in modo  che  è quasi   impossibile   distinguerle nel dettaglio. Presentano l'evento berit jahvista di Es 34 come un rinnovamento dell’alleanza elohista di Es 24,  che  è  stata  rotta  da  una ribellione  di Israele. Si può pensare che questa sistemazione sia artificiale e che l`episodio del vitello d`oro sia stato messo in questo posto per separare i due  racconti dell’evento   dell’alleanza  e  permettere di conservarli.

Dalla  raccolta  di   questi  dati,  comprendiamo  che   il  grande binomio berit-rito vive in uno stesso campo semantico. La creazione, la  carne dell'uomo e la circoncisione  sono  gli  elementi  rituali  di  questa prassi-alleanza. 



4 L'evento Berit

Procedendo oltre si giunge al libro del Deuteronomio e subito dalla  lettura dei  testi notiamo  una   rivoluzione  copernicana che sconvolge notevolmente il grande legame rito=berit.

Il Deuteronomio crea una nuova funzione: rito ≠ berit cioè l'alleanza diviene evento e il rito è il luogo della mediazione dell'evento. Ma seguiamo le linee di lettura. Il Deuteronomio nella sua configurazione attuale si presta ad  essere  analizzato  come un  grande  testo  di  Evento  dell’alleanza, con un corpo di leggi nella sua parte centrale (capp.12-26), precedute da una grande sezione introduttiva in parenesi ( capp.1-11) e seguite da un ampia  serie  di  benedizioni  e  maledizioni  (capp.  27-28);  una formula di evento dell’alleanza abbastanza estesa si trova in 26,16-19 (mentre in 28,69 ricompare l’espressione Karat berit).

Subito dopo l’insediamento nella terra, Gs 24 presenta l’evento dell’alleanza tra JHWH e il suo popolo con la mediazione di Giosuè nella grande assemblea di  Sichem,  in  un   testo  che sviluppa  più ampiamente il ricordo degli antecedenti storici(vv. 2-13);  l’espressione  karat  berit  trova qui  un’applicazione  singolare avendo come  soggetto  Giosuè  stesso e  come  destinatario  il  popolo  (v.25). "Voi siete testimoni contro voi stessi": è la firma che Giosuè pone in calce  al  giuramento  dell’assemblea  di Sichem,  solenne  rilancio  del patto sinaitico (Giosuè 24, 22).  

I redattori e gli storici "deuteronomisti", che rielaborano tutto il materiale di quelli che lo precedono, dandogli la forma con cui ci sono  pervenuti, già  conoscono la  minaccia  babilonese  e  ben sanno che persino  un  israelita  può essere  tentato  di preferire  la  schiavitù alla  libertà:altrimenti perché  mai  avrebbero  conservato memoria della legge che ordina di marchiare all’orecchio, davanti a Dio e col segno infamante della schiavitù perenne, l’ebreo che rifiuta la libertà nell’anno  sabbatico ? (Es 21,56  e  Dt 15,16-17) se non perché  è l’orecchio che ha ascoltato l’annuncio del Sinai e perché la rinuncia alla libertà è una vera e propria abiura, un vero e proprio rifiuto della manifestazione storica della volontà creatrice e redentrice di JHWH? 

E’ tipico  della  grande   rilettura  del  Deuteronomio, parlare dell’esperienza di fede degli ebrei attraverso il richiamo alle vicende dell’Esodo  e   in particolare  all’uscita dall’Egitto.  

Nessun altro evento ha tale rilievo nella scuola  deuteronomico-deuteronomista,  perché  nessun altro è, come questo,   sentito  ultimativo. Ne  va della vita o della   morte   dei protagonisti; ne va dell’esistenza stessa del libro e, perché no, del suo lettore.  

La stessa densità della fusione, però, il modo articolato e sapiente  in   cui  esse  si   intrecciano,  si  ripetono, si  richiamano,  si correggono o  si confermano, per  chiudersi  alla  fine  come un’unità molteplice  ma  consonante,  ci  segnala  che  la  loro  costruzione  finale segue   un   filo   ideale più   che   storico,   costruisce   una   evento dell’alleanza –documento e non una evento dell’alleanza-prassi. 


5 Verso una conclusione: la modellizzazione del sacrificio spirituale

 
Geremia  compie una sontuosa operazione metodologica.  

Negando  la  validità  dei  sacrifici  ed  olocausti come luogo  di mediazione dell'evento, deve  ricercare  una  nuova  via  di ripresentazione dell'evento. Proprio dalla stesura dell'intero capitolo settimo notiamo che il profeta cerca di creare un binomio tra Evento e modellizzazione spirituale.

Del resto chiunque può rendersi conto che  i  libri  profetici,  quando   denunciano  le cadute  e  ricadute  del popolo  nell’idolatria  e  lanciano parole di  fuoco  contro  l’abitudine degli ebrei dell’età post-davidica a mescolare il sacrificio del Tempio a   JHWH  con   quello  a  Baal   e  Astarte,  non segnalano  tanto   la corruzione  del monoteismo mosaico, quanto la   difficoltà dell’affermarsi e il persistere di Israele nell’antico evento dell’alleanza rituale  comune   ai  popoli  della "mezzaluna   fertile".  

L’insegnamento  del Deutero-Isaia   sull’universalità  di  JHWH,  Dio nazionale di Israele, creatore dei cieli e della terra, Signore di tutti i popoli,  e sull’irrazionalità  dei culti  idolatrici, insegnamento che sta alla base della stesura finale del Pentateuco, nasce in Babilonia non come semplice recupero di verità antiche, ma come esplosione di una modellizzazione  della  fase  di  spiritualizzazione  cultuale, frutto  di una profonda e radicale rielaborazione  degli insegnamenti   della tradizione . 

Prenderne atto non è poca cosa, anche perché ci consente di chiarire,  tra  l’altro, il valore di modello  idealtypico-spirituale della dicotomia rito-Evento presente  in  Ger  7,1-28.  

Il che ci consente alcune  riflessioni. La  prima 
è la conferma della lentezza e della difficoltà con cui il con cui il monoteismo si afferma in Israele. La seconda riguarda la possibilità che in Geremia emergano vie di pensiero e d’azione in profonda contraddizione  con  la  sua  stessa  linea  di fondo, vale  a  dire  la possibilità e la validità dell’evento  e della mediazione rituale.

Proprio perché storicamente e  culturalmente intessuta  col processo  umano  di  crescita, Geremia  può imboccare  strade  senza uscita. Proprio per salvare la  dimensione   dell'Evento e nel contempo  il  radicamento di fede a Jhwh, Geremia trova nella fase di spiritualizzazione   l'unica   via   di   salvezza  dell'evento. Scardina completamente  la  mediazione  rituale  poiché  la   vede strettamente implicata con il mondo rituale dei culti a Baal.

Dietro la formula : " In verità io non parlai né diedi comandi 
sull'olocausto  e  sul sacrificio  ai  vostri  padri  quando  li  feci  uscire dall'Egitto" (Ger 7,22), il profeta Geremia edifica una visione e una lettura alternativa del sacrificio, una comprensione rituale che esula dalla mondo sacrificale dell'A.T. e che sfocia  in una modellizzazione idealtypica spirituale in  cui  il sacrificio non scaturisce più dagli elementi   cruenti.

In effetti 
è  proprio   questa chiave di  lettura  che   ricostruisce  in modo   alter-nativo  la  stessa prassi sacrificale veterotestamentaria aprendo una nuova modellizzazione spirituale tra Parola Rivelata e prassi sacrificale.  

Si può  trovare qualche difficoltà a cogliere 
l’importanza  di  questa  lettura  della  realtà  e a  darle  il  suo  valore appassionante di testimonianza e di messaggio, ma resta il fatto che è un meccanismo spontaneo, immediato che, con un profondo sorriso interiore,  permette   di  poter  individuare l’avvincente  e  intrigante costruzione del sacrificio spirituale.  

 


Note 

(1) E.W.  THOMPSON,   The Book of Jeremiah,  (NICOT), Grand Rapids 1980; J.BRIGHT, Jeremiah  (AB. 21), New York 1965;    E.W.NICHOLSON,    Jeremiah    1-25        (CBC)   Cambridge    1973; cfr. spec. NICHOLSON , Jeremiah 1-25 , pp.456. Notare, in particolar modo, la prospettiva redazionale geremiana con il testo di Dt 10,12-22. cfr. anche VOLZ P.,False prophets, in Enciclopaedia Biblica III, London 1902,  3874; KONIG   E.,  On  the  Meaning   and  Scope  of  Jeremiah   7.22-23,  in  “  The Expositor”  6  (1902)   pp.  135-154.   La  questione   è  stata   affrontata da SCHEFFLER E., The holistic historical background against which Jeremiah 7,1-15, in “OTEssays”  (1994)  381-395,  STACHEL  G.,  “Sta  in porta  domus  Domini  et  loquere verbum”, die Predigt 19 Eckarts und der Spruch Jeremia 7,2, in “GeistL” (1990), 405-426, TOV E.,Some aspects of the textual and Literary History of tha Book of Jeremias, in Aa.Vv, Le livres de Jérémie, BETL, LIV, Leuven 1981, S.E.BALENTINE,The prophet as Intercessor, A Reassement, in “JBL” 103 (1984), pp. 161-173, HOLLADY W.L.,The background of Jeremiah’s Self-Understanding,  in “JBL” 83 (1964), pp. 153164.(2) CASPARI W., Jeremia und der Priesterkodex, in TBL 3 (1924), pp. 66-67; KONIG E., On the Meaning and Scope of jeremiah 7,22-23, in “ The Expositor”  6 (1902), pp. 208-218; VOLZ P., “False” prophets, in Enciclopaedia Biblica III , London 1902, 3874 ss.  (3) AGUILERA A.,  La formula “ templo de Jahvé, templo de Jahvé, templo de Jahvé” en Jr 7,4,in  “ EstBib” 47 (1989), pp. 319-342. (4) W.  ROBERTSON  SMITH,   Lectures  on  the  Religion  of   the  Semites:  the  Fundamental Institutions, Black, Edinburgh 18942, soprattutto alle pp. 269 e ss.    (5) Ivi, cit.,p. 240. (6) Ivi, cit. pp. 269-289. (7) Ivi, cit. pp. 318-319 (nota 2). (8) J.G. FRAZER, Il ramo d’oro, Boringhieri, Torino 19882, pp. 344 e ss. (9) A.N.TERRIN, Il pasto sacrificale nella storia comparata delle religioni, in S.UBBIALI (ed.), Il sacrificio evento e rito, Edizioni Messaggero, Padova 1998, cit. p. 298. (10) ROBERTSON SMITH, The religion of the Semites,pp. 372-390.409. (11)Ivi, cit. pp. 397-398. (12)Ivi, cit. pp. 318-319. (13) F.VAN DIJK HEMMES , On Reading Prophetics Textes, Gender-Specific and Related Studies in Memory of Fokkelien van Dijk Hemmers, Bibl. Interp. 18, Leiden 1996. (14)Cfr. T.SEIDL,  Jeremias   Tempelrede.  Polemik   gegen  die   joschijanische  reform?  Die Paralleltradition  Jer  7  und  26  auf  ihre  Effizienz   fur  das  Deuteronomismusproblem  in Jeremia befragt, in GROSS WALTER,  Jeremiah und die “deuteronomistische Bewegung”, BBB 98, Weinheim 1995. (15) Seguiamo  la   versione  LXX  che   omette:  “  Dice   il  Signore  degli   eserciti,  Dio d’Israele”glossa espansionistica in M. (16)Leggendo  con  il  qere’  letteralmente.  “  giorno  della  mia  uscita  con  loro”;  con  il ketib: “giorno di uscita con loro”.(17) Omesso in LXX. Risulta un’intrusione nel testo masoretico di Sal 81,13. (18)Lectio difficilior: M wayeu , altri manoscritti wayelko. (19)L’intero versetto è omesso in LXX. (20)Omesso in LXX.

 

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